Diabete: metformina e altri farmaci

DiabeteIl diabete mellito è un disturbo metabolico in cui sussiste un’alterato controllo glicemico dovuto a varie cause tali per cui di distinguono due topologie di diabete: tipo 1 e tipo 2. Il primo ha natura autoimmunitaria, ossia per varie ragione, si innesca una reazione immunitaria che porta alla distruzione delle cellule β. Il secondo tipo invece si sviluppa a partire da una situazione di insulino-resistenza e insulino-deficienza relativa (ossia i livelli insulinici possono essere normali ma insufficienti a vincere l’insulino-resistenza) o con presenza anche di ridotti livelli insulinici (è un fattore che si sviluppa nel tempo a  causa della glucotossicità esercitata sulle cellule β). Non mi dilungo molto su questo argomento, poichè non è propriamente l’oggetto dell’articolo in esame, che vuole altresì fare una panoramica generale ma non esaustiva dei nuovi e vecchi presidi farmacologici usati sopratutto nel diabete di tipo 2. Aggiungo solo un particolare che può far riflettere molti, ossia la diffusione epidemica del diabete anche tra gli sportivi e le fasce di popolazione giovanile infantile e adolescenziale, con l’uso abbastanza precoce dell’insulina e l’instaurarsi abbastanza precocemente di tutta una serie di problematiche che ciò comporta.

Esistono una serie di sostanze che apportano un controllo sui livelli glicemici, e lo fanno in diversi modi; ne cito alcune:

  • Secretogeni: stimolano la secrezione pancreatica di insulina (fanno parte anche i regolatori delle incretine)
  • Insulino-sensibilizzanti: aumentano la sensibilità all’insulina di organi e apparati attraverso vari sistemi di interazione
  • Inibitori dell’ α-glicosidasi: agiscono a livello intestinale diminuendo l’assorbimento dei carboidrati complessi e quindi controllando il picco glicemico (ad esempio l’Acarbose)
  • Inibitori del trasporto renale del sodio-glucosio (SGLT2): sostanze di ultima generazione che agiscono a livello renale inibendo il riassorbimento del glucosio; bloccano l’attività della proteina SGLT2 inducendo glicosuria.

SECRETOGENI

  • Sulfaniluree
    • I generazione: clorpropamide, tolbutamide, carbutamide (queste ultime due non più in uso)
    • II generazione: glibenclamide, gliclazide, glipizide, glimepiride
  • Glinidi: repaglinide, nateglinide, mitiglinide
  • Regolatori delle incretine
    • Analoghi del GLP-1: exenatide, liraglutide
    • Inibitori del DPP-4: sitagliptin, vildagliptin e saxagliptin

Questa classe di farmaci agisce, per vie diverse, stimolando la secrezione insulinica ma ciò porta rispetto ad altri ipoglicemizzanti anche alcuni problemi, come ad esempio ipoglicemia severa. La II generazione di sulfaniluree in particolare presenta una durata abbastanza lunga (circa 24 ore) rispetto alla I e ai glinidi; quest’ultimi invece agiscono più rapidamente delle precedente con una durata di circa 2 ore, sono dotati di “selettività” ossia stimolano le cellule pancreatiche solo se c’è un determinato tasso glicemico nel sangue. Nel complesso questo tipo di molecole proprio in virtù del fatto che stimolano la produzione insulinica, aumentano anche l’insulino resistenza nonchè il peso (effetti meno marcati con i glinidi). La mitiglinide a differenza delle altre due, viene commercializzata solo in giappone ed ha una più alta affinità per le cellule β pancreatiche.[12]

In particolare gli inibitori del DPP-4 sono dotati di alcuni vantaggi non di poco conto, come minor rischio di ipoglicemie, non incrementano il peso e non hanno particolari effetti gastrointesinali. Il loro compito è quello di inibire l’azione proteolitica dell’enzima DPP-4 sulle incretine (GIP e GLP-1) aumentandone quindi le concentrazioni plasmatiche. Tali molecole funzionano bene in associazione con gli inibitori del trasporto sodio-glucosio (SGLT2) poichè entrambi i farmaci hanno mostrato un effetto rigenerativo sulle cellule β pancreatiche, ma gli inibitori del DPP-4 hanno mostrato (proprio perchè incrementano i livelli di GLP-1) una riduzione della produzione di glucagone… mentre negli inibitori del SGLT2 avviene l’esatto opposto (seppur non è chiaro perchè ciò avvenga); quindi possiamo dire che le due tipologie di farmaci in associazione compensano alcuni difetti amplificando il sinergismo sul controllo glicemico. (Per altri approfondimenti leggi anche Link1 e Link2)

Tra gli analoghi del GLP-1 la liraglutide  trova impiego anche in altre patologie come ad esempio la sindrome dell’ovaio policistico[26]. Si è infatti osservato che rispetto al trattamento standard che prevede metformina + clomifene, l’uso della liraglutine in associazione a metformina ha mostrano un notevole effetto sulla riduzione del peso, del BMI e della circonferenza vita in donne obese non diabetiche. In tale studio eseguito su 40 donne (di cui 36 hanno completato lo studio) divise in 3 gruppi (metformina, liraglutide e met+lira) della durata di 3 mesi, sia il peso sia la circonferenza vita che il BMI erano notevolmente diminuiti in tutti e 3 i gruppi ma maggiormente nel gruppo met+lira; anche i livelli di androstenedione sono notevolmente calati in questo gruppo, mentre sono saliti negli altri due; simili risultati si ottennero con l’uso di exenatide + metformina ma nel doppio del tempo rispetto a liraglutide + metformina.
L’uso combinato di liraglutide e metformina ad ogni modo si è dimostrato superiore sulla monoterapia.

INSULINO-SENSIBILIZZANTI

  • Biguanidi: metformina, fenformina (ritirata dal mercato)
  • Tiazolidinedioni (Glitazoni): troglitazone (Rezulin®), rosiglitazone (Avandia®), pioglitazone (Actos®, Glustin®)

I tiazolidinedioni sono stati al centro di controverse questioni, l’Avandia da quando fu approvata dalla FDA nel 1999 come farmaco per il controllo glicemico e per il diabete mellito di tipo 2, venne tenuta sotto osservazione per i possibili effetti sulla dislipidemia e sull’incremento dei problemi cardiaci nei diabetici; con successivi studi si evidenziò questo grave problema (aumento del rischio d’infarto ma non della mortalità) che portò alla messa al bando (anche in europa nel 2010[4]) di tale molecola[1-3]. Tuttavia funzionavano bene ma i rischi superavano i benefici, l’unico che attualmente si trova ancora in commercio è il pioglitazone. In alcuni studi in cui l’Avandia era associata alla metformina ciò sembrava dare riscontri positivi, senza i presunti problemi legati alla dislipidemia.[5]
Tutti i glitazoni agiscono come agonisti sul recettore PPARγ il quale è presente un po in tutte le cellule ma specialmente in quelle β pancreatiche e nel tessuto adiposo. A tale recettori si legano gli acidi grassi liberi e gli ecosanoidi; il pioglitazone e ancor di più il rosiglitazone si legano a tale recettore attivando la trascrizione di specifici geni. A causa di tale attivazione si riduce l’insulino-resistenza, aumenta la concentrazione di leptina e adiponectina, ecc. Come conseguenza avremo riduzione dell’emoglobina glicata, della glicemia a digiuno e  dell’infiammazione del tessuto adiposo in pazienti obesi con diabete di tipo 2[40], ma gli effetti antinfiammatori dei glitazoni si esplicano anche sulle pareti dei vasi sanguigni tale per cui è stato visto che in pazienti affetti da artrite reumatoide erano in grado di migliorare la funzionalità vascolare diminuendo l’incidenza dell’aterosclerosi.[41]

Per quanto riguarda i biguanidi invece, uno tra gli effetti collaterali più pericolosi è l’aumento dei livelli di acido lattico. Un’intossicazione da biguanidi come nel caso dei diabetici in cui la funzionalità renale è compromessa, o in tutti gli altri casi di insufficienza renale ed epatica, può essere fatale; ma il fenomeno è riscontrabile anche in soggetti sani. Tutto ciò avviene poichè i biguanidi alterano il meccanismo di respirazione mitocondriale riducendo il VO2.[6]

Metformina (Glucophage®)
Vorrei soffermarmi un po sulla metformina, poichè è forse il farmaco più usato e prescritto contro il diabete.
metforminaLa caratteristica principale della metformina è di interagire fortemente con l’AMPK regolandone l’espressione. Infatti una sua sottoregolazione porta a consumare ATP, sintetizzare colesterolo e acidi grassi e a consumare glucosio… situazione in cui i livelli di insulina sono abbastanza alti (dunque abbondanza energetica). Al contrario invece, una sua sovraregolazione porta a creare ATP, consumare maggiormente acidi grassi per scopi energetici ed è una situazione metabolica simile alla restrizione calorica in cui i livelli d’insulina si mantengono bassi (dunque scarsità energetica).

Quali sono gli effetti della metformina sulla regolazione dell’AMPK?

Si è fatta sempre più strada l’ipotesi di una correlazione che lega la sottoregolazione dell’AMPK oltre che alla sindrome metabolica anche al cancro. E infatti l’AMPK riveste un ruolo importante come mediatore del soppressore STK11 o LKB1 del cancro, tale funzione è inibita nelle cellule che hanno una modifica strutturale di tale fattore che sopprime il controllo sulla crescita cellulare. Dunque l’attivazione dell’AMPK ristabilisce l’ordine metabolico cellulare rafforzando i sistemi di controllo metabolici agendo sull’MTORC1, il p53 (un altro soppressore tumorale), ed altri enzimi e proteine (compreso l’IGF-1) coinvolte nella regolazione della replicazione cellulare e del loro metabolismo.[30]
L’attività del binomio AMPK-LKB1 rappresenta un ponte di collegamento fra l’obesità e il cancro al seno durante la menopausa poichè inibisce l’espressione dell’aromatase all’intero del seno, quindi la metformina poichè attiva l’AMPK ha mostrato di promuovere tale attività a livello del seno con diminuzione della proliferazione estrogenica.[31]
La metformina sovraregolando l’AMPK ha mostrato di avere quindi un impiego terapeutico alquanto trasversale nella cura delle disfunzioni metaboliche.

Dunque la metformina (sovraregolando l’AMPK) attua:

  • riduzione della secrezione d’insulina
  • riduzione della sintesi di acidi grassi e colesterolo

dalle due situazione precedenti deriva:

  • incremento della lipolisi
  • incremento dell’ossidazione lipidica, captazione di glucosio e  glicolisi nei muscoli scheletrici
  • incremento dell’ossidazione lipidica e captazione di glucosio da parte del cuore
  • inibizione dei processi pro-infiammatori
  • riduzione a circa la metà dell’assorbimento di glucosio dal tratto gastrointestinale
  • inibizione della gluconeogenesi epatica del 36%
  • aumento del numero e della sensibilità dei recettori insulinici, incrementando la captazione del glucosio sulle strutture periferiche
  • aumenta l’ossidazione lipidica per scopi energetici

Dalla seguente meta-analisi[27] è risultato che la metformina riduceva del:

  • 5,3% il BMI e i trigliceridi
  • 4,5% la glicemia a digiuno
  • 14,4% l’insulina a digiuno
  • 5,6% il colesterolo LDL
  • 40% l’insorgenza del diabete (nei soggetti pre-diabetici)

incrementando del 5% il colesterolo HDL. La metformina dunque potrebbe essere usata anche nei soggetti dislipidemici con valori moderatamente alterati dell’LDL, anzichè usare le statine, e in associazione con repaglinide poichè ha mostrato da un lato di incrementare l’insulino sensibilità e dall’altro di migliorare il profilo lipidico.[33]

Non è attualmente chiaro però il meccanismo tramite cui riesce ad attivare l’AMPK, ma altre ipotesi sul come la metformina riesca ad inibire la produzione epatica di glucosio sono state avanzate. Ad esempio è stato ipotizzato che la metformina possa inibire la glicerolo 3-fosfato deidrogenasi mitocondriale (mGPD) il che ridurrebbe la produzione di glucosio epatico dal glicerolo e dal lattato[42], ma il sistema shuttle del glicerolo fosfato è poco rilevante a livello epatico a differenza di quello del malato aspartato, tant’è che su modello animale la distruzione dello shuttle glicerolo fosfato non ha alterato la glicemia ed inoltre si potrebbe prevedere che la gluconeogenesi dal lattato non sarebbe stata influenzata dato che il NADH prodotto dalla conversione del lattato a piruvato sarebbe stato consumato dalla gliceraldeide 3-fosfato deidrogenasi durante la gluconeogenesi.[43]
Però è stato trovato un anello di congiunzione tra questi due meccanismi, poichè è stato visto che la sovraregolazione dell’AMPK inibiva la mGPD nei lieviti (molto simile a quella umana), ciò spiegherebbe la possibile interazione fra il pathway che regola la mGPD e l’azione diretta che la metformina esplica sull’AMPK.[44]

Solitamente si tende a fare dell’erba un fascio, ma valori glicemici sopra la norma non indicano per forza che si ha il diabete; la condizione diabetica sussiste quando:

  • la glicemia a digiuno supera i 125mg/ml
  • la glicemia post-prandiale a 2 ore supera i 200mg/ml
  • l’emoglobina glicata supera i 6,5mg/ml

la condizione pre-diabetica è tale quando:

  • la glicemia a digiuno è tra 100-124mg/ml
  • la glicemia post-prandiale a 2 ore è tra 140-199mg/ml
  • l’emoglobina glicata è tra 5,7-6,4mg/ml

Per ulteriore approfondimento leggi anche Link3 e Link4

Nei soggetti con livelli glicemici a digiuno compresi fra 85-100mg/ml non si può parlare di pre-diabete appunto, ma di livelli “oltre il normale” che comunque aumentano il rischio relativo di morte per problemi cardiovascolari del 40%.[29]
Ogni punto percentuale di riduzione dell’emoglobina glicata[28] corrisponde (su una scala di rischio) a:

  • -21% di decessi a causa del diabete
  • -14% di infarti del miocardio
  • -37% di complicazioni che riguardano il microcircolo

Ovviamente anche la metformina non è immune da effetti colleterali. I maggiori effetti riguardano l’apparato gastrointestinale (soprattutto diarrea), che si presentano in circa la metà degli utilizzatori, altri possono essere nausea e vomito, flatulenza, debolezza, indigestione e mal di testa. Per limitare tali sintomi e in modo particolare la diarrea, l’assunzione di metformina deve partire con bassi dosaggi aumentandoli di settimana in settimana fino a 500mg o più al giorno; le formulazioni a lento rilascio sono migliori. Ad ogni modo tale molecola non viene legata dalle proteine plasmatiche o metabolizzata (quindi non interagisce con altri farmaci), e quindi buona parte (fino all’80%) viene espulsa con le urine in circa 12 ore.
Tra gli altri effetti collaterali dell’uso di metformina troviamo la carenza ed il mal assorbimento di vitamina B12 (nel 5,8% dei diabetici) che porta anche un incremento dell’omocisteina[32] nonchè l’aumento dell’acidosi lattica, anche se la fenformina ha mostrato un marcato effetto sull’aumento di tale rischio rispetto alla metformina.[7][8][9][10]
La fenformina venne ritirata dal mercato USA fin dal 1978, mentre in italia è stata ritirata nel 2013 su revoca della Sanofi.
Inoltre recentemente è emerso anche un altro dato importante, ossia che la metformina non incide sull’incremento del rischio di acidosi lattica o dell’aumento dei livelli di lattato se comparata ad altri farmaci ipoglicemizzanti.[11]Ad ogni modo l’acidosi lattica diventa pericolosa nei casi di insufficienza renale ed epatica (casi in cui l’uso di metformina dovrebbe essere ben ponderato o del tutto evitato).

INIBITORI SGLT2

Tra gli inibitori del trasporto del sodio-glucosio (SGLT2) troviamo: canagliflozin, empagliflozin, dapagliflozin, tofogliflozin, ipragliflozin.

Dapagliflozin-approvedIl canagliflozin fu il primo farmaco di questa categoria che venne approvato negli USA dalla FDA nel 2013, cui seguì successivamente il dapagliflozin approvato nel 2014. In Italia il dapagliflozin (Forxiga®) è stato messo in commercio nel 2013, mentre il canagliflozin (Invokana®) nel 2014. L’empaglifozin ha completato buona parte delle tappe della fase 3 di sperimentazione, mentre l’ipragliflozin è stato il primo inibitore delle SGLT2 approvato in giappone venduto con il nome Suglat®[19]; anche il tofogliflozin è approvato in giappone per l’uso in monoterapia o in combinazione con altri ipoglicemizzanti, venduto sotto il nome Apleway® e Deberza®.[16]

Dapagliflozin (Forxiga®)
DapagliflozinNonostante la recente approvazione di queste molecole, bisogna anche chiarire qualche difetto di questa categoria; è il caso di uno studio sul dapagliflozin (Forxiga®) condotto partendo da un modello animale che esaminava gli effetti nefasti dell’intossicazione da glucosio causata dall’iperglicemia cronica che ostacola l’azione dell’insulina[13]. Tale studio dimostrò l’efficacia del farmaco nell’aumentare la sensibilità dei tessuti insulino-dipendenti all’insulina (attraverso la riduzione del glucosio plasmatico indotto dalla glicosuria). La diminuzione della glicemia a digiuno causata dal farmaco dovrebbe far diminuire anche la produzione di glucosio epatico, paradossalmente si verifica un aumento della produzione di glucosio endogeno, indipendentemente dalla riduzione della concentrazione plasmatica di glucosio[14]; come e perchè ciò avvenga non è stato chiarito, ma sono state fatte alcune ipotesi:

  1. è stato osservato un aumento del 23% della concentrazione plasmatica di glucagone solo nei soggetti trattati. Come se non bastasse si è verificato anche una concomitante riduzione dei livelli plasmatici di insulina, aumentando il rapporto glucagone/insulina che regola di fatto il tasso di sintesi del glucosio epatico.
  2. dalla prima ipotesi deriva che l’incremento della produzione endogena di glucosio possa dipendere da i reni; si è ipotizzato quindi che possa sussistere un meccanismo che attivi un riflesso neuronale tra i reni e le cellule pancreatiche α (o lo fa indirettamente attraverso centri neuronali nel SNC), tale per cui in seguito a glicosuria indotta dal dapaglifozin viene stimolato il rilascio di glucagone.

Tuttavia a causa di questo aumento della produzione endogena di glucosio, si è preso atto del fatto che a fronte della quantità di glucosio escreta per azione del farmaco (91gr), quasi la metà (47gr) è stata nuovamente prodotta; se tale produzione fosse stata inibita o fortemente limitata, i livelli glicemici a digiuno sarebbero stati molto più bassi. Una possibile soluzione a tale problema sarebbe abbinare al dapaglifozin un inibitore del DPP-4 (come precedentemente annunciato) oppure agonisti del GLP-1 in modo da contenere la concentrazione di glucosio plasmatico e di emoglobina glicata.

Empagliflozin
empagliflozinTale “paradosso” riguarda un po tutte le molecole di questa categoria, esaminiamo il caso dell’empagliflozin[15]; anche qui in soggetti con diabete di tipo 2 si è riscontrata glicosuria che porta alla riduzione della glicemia a digiuno e post-prandiale, sia con un assunzione stand-alone di 25mg sia  dopo 4 settimane (sempre a 25mg). Nella somministrazione stand-alone a digiuno si è avuta durante le successive 3 ore un escrezione di 8gr di glucosio ma contemporaneamente una produzione endogena di 7gr, ma ciò può essere imputabile al fatto che la glicosuria abbia fatto calare molto rapidamente la glicemia a digiuno innescando i sistemi di ripristino della glicemia, come l’innalzamento dei livelli di FFA circolanti ecc. In seguito al pasto invece, l’empagliflozin ha portato un marcato aumento della glicosuria (29gr nelle 5 ore successive), riducendo la secrezione insulinica e aumentando quella di glucagone (-25% il rapporto insulina/glucagone). L’aumento del glucagone resta ancora una questione poco chiara, in cui sicuramente concorrono più fattori.
I risultati sulle 4 settimane invece hanno dato un riscontro analogo a quello stand-alone, in cui sia i livelli di emoglobina glicata sia quelli di glucosio sono diminuiti significativamente a digiuno, nonchè i livelli glicemici post-prandiali uniti a minor secrezione insulinica.
Concludendo si può dire che in seguito a glicosuria si è avuto controllo dei livelli di glucosio, riduzione della secrezione insulinica con conseguente miglioramento della funzionalità delle cellule β e della sensibilità insulinica, nonchè produzione endogena di glucosio come fenomeno compensatorio, ridotto assorbimento tissutale di glucosio, livelli di insulina più bassi ma di glucagone più alti. Questa situazione pur portando un maggior utilizzo degli acidi grassi liberi (FFA) in seguito a deficit calorico indotto dalla perdita di glucosio, dovrebbe portare alla riduzione di massa grassa (e del peso), poichè la glicosuria indotta da empagliflozin non implica un ridotto consumo energetico o diminuzione dell’effetto termogenico del cibo; tutto sommato tale perdita di peso nel lungo periodo non è cosi rilevante come ci si aspetterebbe.

Tofogliflozin (Apleway®Deberza®)
tofogliflozinDa uno degli ultimi studi pubblicati sul tofogliflozin (partendo dal modello animale), emerge che tale molecola possa indurre una diminuzione della massa grassa (e del peso) senza cambiamenti sulla massa magra, permettendo inoltre un aumento dell’introito calorico senza modificare il dispendio energetico e diminuendo il bilancio calorico totale. Anche i livelli plasmatici di trigliceridi, leptina e il quoziente respiratorio sono diminuiti, nonchè le dimensioni degli adipociti, mentre sono aumentati i livelli dei chetoni. La combinazione con un insulino-sensibilizzante quale il pioglitazone (facente parte dei tiazolidinedioni) ha mostrato una miglior efficacia che in monoterapia.[17]

In un altro studio multicentrico, randomizzato placebo controllato in doppio cieco[18], di 24 settimane effettuato su 235 giapponesi diabetici (con diabete di tipo 2) divisi fra gruppo a placebo, gruppo a 10mg/die, gruppo a 20mg/die e gruppo a 40mg/die, risultò un significativo decremento sia dei livelli plasmatici di glucosio a digiuno (di più nel gruppo a 20mg/die) che 2 ore dopo mangiato, e diminuzione del peso in tutti i soggetti trattati con tofogliflozin (di più nel gruppo a 40mg/die), nonchè diminuzione maggiore nel gruppo a 20mg/die dell’emoglobina glicata. Inoltre sono diminuite anche la pressione diastolica e sistolica, migliorati anche l’HDL e i trigliceridi plasmatici mentre l’LDL e il colesterolo totale sono diminuiti leggermente nei gruppi a 10mg e 20mg rispetto al placebo; nel gruppo a 40mg c’è stato un incremento non significativo del colesterolo totale, ma significativo dell’LDL. Ad ogni modo la riduzione dei livelli di glucosio post-prandiale e della circonferenza vita sono stati molto significativi nei soggetti trattati con tofogliflozin. Gli effetti collaterali maggiormente riscontrati sono stati iperchetonemia, chetonuria e pollachiuria ma non hanno destato preoccupazione, solo un caso di cardiopatia ischemica e infezioni al tratto urinario e genitale (1,7% dei soggetti) verificatesi nel gruppo a 40mg e un caso di vertigini nel gruppo a 10mg; non si sono registrati decessi.

Canagliflozin (Invokana®)
canagliflozinIl canagliflozin fu il primo farmaco di questa famiglia ad essere stato approvato in USA nel trattamento del diabete di tipo 2. Su 13 mesi di studio clinico randomizzato a doppio cieco placebo controllato in cui quasi 500 pazienti ricevettero 100mg, 300mg o placebo una volta al giorno, sia il peso sia l’emoglobina glicata che i livelli di glucosio plasmatici a digiuno risultarono nettamente più bassi rispetto al gruppo placebo. Problemi urogenitali furono riscontrati i tutti e 3 i gruppi in modo analogo, e qualche caso di ipoglicemia non severa nei gruppi a canagliflozin.[23][24]

In uno studio giapponese di 3 mesi randomizzato a doppio cieco placebo controllato su pazienti diabetici di età compresa fra 20 e 80 anni, divisi in 5 gruppi (placebo, 50mg, 100mg, 200mg, 300mg) venne osservata una riduzione considerevole dell’emoglobina glicata, della glicemia a digiuno e postprandiale e del peso. I casi di ipoglicemia nei gruppi a canagliflozin sono stati pochi e blandi. Nel complesso risulta essere ben tollerato come farmaco, sia in monoterapia che associato ad altri ipoglicemizzanti.[25]

Ipragliflozin (Suglat®)
ipragliflozinÈ stato il primo farmaco di tale famiglia approvato in giappone. Ha un emivita di 12 ore e raggiunge il picco plasmatico di concentrazione in 90 minuti dalla somministrazione, l’efficacia di escrezione urinaria di glucosio è dose dipendente cosi come il calo di peso registrato e di emoglobina glicata (ques’ultimo molto simile a quello registrato con la metformina).[20][21]

In uno studio randomizzato a doppio cieco placebo controllato, si è visto che la farmacocinetica della metformina non cambia con l’associazione di ipragliflozin a 300mg/die (in pazienti diabetici già in cura con metformina) e che l’uso in associazione di questi due farmaci è stato ben tollerato (quantomeno sulle due settimane di studio); ovviamente l’escezione urinaria di glucosio è stata notevolmente più alta rispetto al gruppo placebo.[22]

Concludendo la rassegna, possiamo affermare che quasi tutti gli inibitori delle SGLT2 hanno dato  risultati terapeutici molto simili, hanno mostrato di funzionare bene in monoterapia tanto quanto in associazione a secretogeni, insulino-sensibilizzanti, insulina, ecc. sulla riduzione del glucosio plasmatico a digiuno e dopo mangiato, riducendo gli effetti da intossicazione da glucosio e migliorando la funzionalità delle cellule β pancreatiche; altri miglioramenti riguardano i livelli dei trigliceridi nonchè della frazione del colesterolo  HDL e la relativa perdita di peso. Tra gli effetti collaterali è stato riscontrato un aumento della produzione di glucagone in risposta alla rapida discesa dei livelli di glucosio causata dalla glicosuria, anche se non è chiaro questo meccanismo di stimolazione sulle cellule α pancreatiche; inoltre è stato riscontrato l’innalzamento della concentrazione dei corpi chetonici.
Ad ogni modo questa classe di farmaci fin ora ha mostrato un rapporto costo/benefici abbastanza buono, quindi senz’altro rappresenta un ulteriore presidio terapeutico valido sopratutto se uniti agli inibitori del DPP-4.

Ci sono anche altre sostanze usate semmai per altri scopi terapeutici, che possono apportare anche un relativo controllo glicemico; è il caso di alcuni antiprolattinici (bromocriptina, cabergolina. Leggi Prolattina e antiprolattinici nel bodybuilding). La bromocriptina è usata per controllare la galattorrea inibendo il rilascio di prolattina e abbassandone i livelli plasmatici. È stato visto che la bromocriptina poteva dare un significativo aiuto nella riduzione glicemica nei soggetti affetti da diabete di tipo 2.[34][35]
La cabergolina usata anch’essa come antiprolattinico e come farmaco contro il Parkinson, ha mostrato di incrementare il controllo glicemico su soggetti iperglicemici affetti da diabete di tipo 2 su cui altri insulino-sensibilizzanti hanno fallito; la cabergolina ha mostrato di ridurre la concentrazione plasmatica di glucosio a digiuno e postprandiale, nonchè l’emoglobina glicata rispetto al gruppo placebo.[36]

Insulina (Humulin®)
Infine c’è l’insulina tal quale, usata nel diabete di tipo 1 ma anche in alcuni casi di tipo 2 unita anche alla metformina e agli altri ipoglicemizzanti visti prima. L’insulina presiede a tante funzioni metaboliche nel nostro organismo[37][38] (leggi anche Insulina, ruolo metabolico ed effetti), ma un suo eccesso cronico non è innocuo e porta con se svariati problemi:

  • aumentato rischio di ipoglicemie severe
  • insulino resistenza
  • stato infiammatorio sistemico
  • dislipidemie (ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia, iperfosfolipidemia)
  • problemi cardiovascolari con aumento del rischio di infarto e ictus
  • aumento del rischio di cancro

ed altro ancora, ma il pericolo più immediato è rappresentato dall’ipoglicemia.
Inoltre nei soggetti con diabete di tipo 2 che fanno uso di insulina è stato riscontrato un aumento medio del peso di 4kg per ogni punto percentuale di riduzione dell’emoglobina glicata.[39]

Ma facciamo un piccolo passo indietro; l’insulina è un ormone peptidico scoperta nel 1922, fino agli anni ’60-’70 veniva estratta prevalentemente dai maiali ma negli anni ’80 si riuscì a produrre insulina in laboratorio. Si distinguono varie tipologie di insulina, in base al tempo d’impiego e alla durata d’azione:

  • Rapida: da 15-20 minuti dopo l’iniezione con azione dalla I alla IV ora
    • Humulin R, Actrapid
  • Intermedia: da 1-3 ore dopo l’iniezione con azione dalla IV alla XII ora
    • Humulin I, Protaphane
  • Prolungata: da 2-4 ore dopo l’iniezione con azione da 24 a 36 ore
    • Humulin U

Si possono miscelare tra loro in rapporti diversi le varie insuline, di solito la rapida con l’intermedia, ma esistono in commercio anche versioni pre miscelate nei rapporti (rapida/intermedia): 10/90, 20/80, 30/70, 40/60 e 50/50; dunque la rapida è sempre inferiore o pari a quella intermedia ma mai superiore.

Come ho più volte ripetuto in precedenza, l’eccesso insulinico porta tra gli effetti collaterali l’ingrassamento e l’aumento di peso; questo essenzialmente perchè l’insulina è un ormone lipogenico e resta tale a qualsiasi dosaggio. Quando si parla di insulina la mente va ad altri due ormoni (i più blasonati) coinvolti nell’ingrassamento o nel dimagrimento, ossia:

Un altro fattore sempre di ordine ormonale è rappresentato dagli estrogeni, la cui azione proliferativa recettoriale gioca un ruolo di rilievo nella captazione del glucosio e dunque nell’insulino-sensibilità; quantità troppo alte o troppo basse di estrogeni aumentano in ultima analisi l’insulino-resistenza. Quindi è di fondamentale importanza analizzare sia negli uomini che nelle donne anche i valori estrogenici, poichè sono gli ormoni  che regolano il metabolismo (intesi come quantità assolute e relative), e dunque a cascata tutta la serie di problematiche analizzate.

Conclusione

L’insulina esogena dovrebbe essere l’ultima spiaggia nel diabete di tipo 2, e quantomeno cercare di mantenerne bassi i quantitavi d’assunzione per il più lungo tempo possibile agendo in primis sulla dieta (certo si fa presto a parlare di farmaci all’ultimo grido, ma non dimentichiamoci che il cibo resta il più vecchio ed efficace farmaco) e sullo stile di vita in generale (in cui rientra anche l’attività fisica), e aiutandosi con le più disparate molecole ivi presentate in base alla propria situazione, ma non soltanto… anche alcuni integratori alimentari possono coadiuvare l’azione  di tali farmaci o quantomeno aiutare nel ristabilimento di un buono stato di salute; ma questo sarà oggetto di un prossimo articolo.

Lo so che è stata lunga e forse tortuosa la lettura di questo articolo, ho voluto fare una breve ma non esaustiva panoramica dei vecchi e dei nuovi ritrovati farmacologici, che in varia misura potranno trovare anche nell’ambito delle preparazioni atletiche un loro uso “extra terapeutico”; alcuni come la metformina e l’insulina sono già conosciuti, altri più recenti avranno modo di farsi conoscere (sempre che ne valga la pena).

Enzo McKloud

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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